Street food e Palermo, la combo perfetta
Alle origini di Palermo: street food come fil rouge
Prima di iniziare, occorre mettersi d’accordo sulla terminologia perché, come dice il saggio, ogni problema è un problema semantico. E allora meglio essere chiari: si dice arancina o arancino? La questione, in perfetto stile italico, è capace di far litigare due siciliani per giorni, perché i buoni motivi per chiamarlo in un modo o nell’altro sono tanti e fondati.
A inizio 2016 è stata addirittura l’Accademia della Crusca a prendere la parola e, tanto per cambiare quando intervengono le istituzioni blasonate, la questione non è stata risolta una volta per tutte: vanno bene entrambe le forme. Tuttavia, un passaggio dell’intervento della Crusca fa propendere per una delle due: siccome l’arancina è “una pallina di riso con la forma di una piccola arancia” è preferibile la versione femminile. Quindi arancina.
Quella maschile, infatti, si riferisce al nome dialettale dell’arancia, arancio (o aranciu). Ad aggiungere ulteriore confusione ad una delle questioni gastronomiche più dibattute della storia d’Italia, ci ha pensato Andrea Camilleri, che intitolò uno dei suoi romanzi incentrati sul personaggio del commissario Montalbano, “Gli arancini di Montalbano”.
Sullo street food a Palermo non si scherza
Ma non è certo un caso che si dibatta tanto sull’arancina e sul suo genere. In Sicilia, e in particolare a Palermo, la cucina di strada è una faccenda molto seria, come tutto ciò che riguarda la cucina in Italia, del resto. Forbes ha inserito una sola città italiane tra le capitali dello street food mondiale, e quella città non poteva essere che Palermo, vero punto di riferimento per chi ama la cucina espressa da strada. Poche città hanno subìto influenze culturali così diverse come il capoluogo siciliano e non è sorprendente che nella tradizione culinaria palermitana abbiano finito per mescolarsi ricette della cultura araba, spagnola e francese.
È un mix unico e affascinante, evidente tanto nell’architettura della città quanto nei profumi che riempiono le sue strade. Sono davvero tantissime le opzioni per chi vuole scoprire Palermo e fare un tour gastronomico impegnativo dal punto di vista calorico. Ma è un’esperienza unica e se si vuole vivere Palermo nella sua interezza, non si può non fare un tour del genere.
Bisogna arrivare preparati, però. Quanti sanno, fuori dalla Sicilia, che cos’è il pani ca’ meusa? Qual è la differenza tra crocchè e cazzilli (domanda trabocchetto, occhio)? E perché lo sfincione si chiama così?
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Un timballo imperiale
Il piatto in assoluto più celebre dello street food palermitano è l’arancina, del cui genere è già stato detto tutto. Non solo perché è ben diffuso al di fuori della Sicilia, ma anche perché esistono varianti regionali che le sono parenti. Ma come ogni buon palermitano ama ripetere, la vera arancina si mangia soltanto a Palermo. Non in Sicilia: a Palermo.
Arrivato durante la dominazione saracena, questo timballo di riso era abbastanza diverso da come lo conosciamo oggi, visto che non c’era sugo di pomodoro – l’America non era ancora negli atlanti – e la panatura arriverà solo ai tempi di Federico II, che amava portare con sé le arancine durante le battute di caccia. Da allora, si dice, la panatura diventò una parte essenziale di questo prodotto e la doratura che la fa assomigliare a un’arancia è anche responsabile del nome con cui la conosciamo oggi.
Ci sono tantissimi posti in cui vale la pena di assaggiare l’arancina: uno dei più celebri è l’Antico Caffè Spinnato di via Principe di Belmonte, a due passi dal Teatro Politeama, fatto costruire a metà del diciannovesimo secolo e uno degli esempi più eleganti dell’architettura neoclassica. L’Antico Caffè Spinnato risale proprio a quegli anni, visto che fu aperto nel 1860, proprio quando il Politeama era in fase di costruzione.
Spinnato si trova nella Palermo ottocentesca ed è il miglior posto da cui partire per fare un tour gastronomico dello street food: se vi trovate in via Maqueda e proseguite su via Ruggiero Settimo, arriverete nell’omonima piazza e verrete circondati da edifici eleganti e vie antiche, che diventeranno sempre più ampie. L’Antico Caffè Spinnato è il centro di gravità di questa eleganza: considerato il salotto della città, ha ampliato la sua offerta nel corso dei decenni ma è ancora il nome da segnarsi per mangiare i piatti più celebri della rosticceria di Palermo.
Due secoli di storia
Se tornate verso il centro storico, lasciandovi alle spalle prima il Teatro Politeama e poi il Teatro Massimo, i due principali teatri della città, troverete l’Antica Focacceria San Francesco, senza dubbio il locale di street food più conosciuto fuori Palermo, visto che ha aperto due punti vendita pure a Milano e a Roma. Aperta nel 1834 da Salvatore Alaimo, questa cappella sconsacrata ospita un pezzo considerevole della storia gastronomica della città.
Nel 1861 la Focacceria, che allora non era ancora antica, si inimicò la potente aristocrazia locale, diffondendo al pubblico la celeberrima pasta ch’i sardi, la pasta con le sarde, un piatto riservato alle mense reali e oggi il piatto simbolo della cucina palermitana. Voi però fermatevi per assaggiare il pani ca’ meusa, un panino al sesamo che viene farcito con milza di vitello fritta nella sugna. Se volete, potete aggiungere caciocavallo o ricotta: in questo caso il panino è maritatu, ma va bene lo stesso.
Il quartiere in cui si trova l’Antica Focacceria San Francesco, il quartiere Kalsa, è un piccolo gioiello tra i quartieri più antichi di Palermo ed è anche la zona della città in cui maggiormente si respirano le atmosfere orientali. Questo quartiere era in origine una cittadella fortificata, eretta durante la dominazione islamica, che serviva a proteggere l’emiro. Oggi i suoi edifici in stile arabo-normanno caratterizzano il quartiere, regalandogli un’atmosfera unica.
I dolci delle monache
In una zona completamente diversa, nei pressi della moderna via Leonardo da Vinci, si trova la Pasticceria Oscar, un posto irrinunciabile per chi ama i dolci della regione. Questa pasticceria così rinomata non è antica come la Focacceria San Francesco – è stata aperta nel 1969 – ma è il posto di riferimento per chi vuole assaggiare un cannolo o una cassatina fatti a regola d’arte.
Se vi trovate a Palermo intorno al 2 di novembre (la Festa dei Morti), non potrete però esimervi dal provare la Frutta di Martorana, un dolce che viene preparato con farina di mandorle e zucchero e che riproduce, nelle apparenze, la frutta.
Il nome di questo dolce deriva da un’idea che ebbero le monache della chiesa della Martorana, il nome con cui è nota ai più la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, che in occasione della visita di Carlo V prepararono delle arance fatte con pasta di mandorle per adornare gli alberi allora privi di frutti.
La chiesa della Martorana si trova in una delle zone centrali di Palermo ed è un buon punto per cominciare una bella passeggiata per stuzzicare l’appetito. Se vi lascerete la chiesa alle spalle e scenderete su via Maqueda, verso la stazione centrale, potrete ammirare due tra i più bei palazzi di Palermo: Palazzo Sant’Elia e Palazzo Cutò. Girate in corso Tukory e fermatevi nei pressi di Porta Sant’Agata, una delle testimonianze più antiche e meglio conservate del periodo normanno.
È qui che sentirete delle urla in siciliano incomprensibili per chi non è del posto. “Scaisi r’uagghiu e chin’i pruvulazzu”, cioè “scarso di olio e pieno di polvere”, è uno degli esempi di quello che gridano i venditori di sfincione, una tappa imprescindibile per chi vuole fare un tour gastronomico di Palermo.
L’origine del nome sfincione deriva probabilmente dal latino spongia – spugna, cioè – e in effetti la consistenza di questo prodotto così caratteristico (è praticamente impossibile da trovare fuori Palermo) è molto porosa. A metà tra l’impasto del pane e della pizza, lo sfincione viene farcito con sarde salate, cipolla, formaggio caciocavallo, olio e ovviamente tanto pomodoro (al contrario della ricetta di Bagheria, che non la prevede).
Un ultimo sforzo
A questo punto sono due/tre i piatti della tradizione palermitana che vi mancano – almeno tra quelli irrinunciabili. Il primo sono le stigghiole, un piatto antichissimo che affonda le sue origini addirittura nella dominazione greca. Le stigghiole sono probabilmente il piatto più rappresentativo di ciò che chiamiamo “street food” ed infatti non c’è un locale vero e proprio per mangiarle, ma occorre cercarle per strada. Si tratta di un piatto di tradizione povera, visto che è uno spiedino preparato con le interiora di agnello o capretto e che viene cotto alla brace.
Il nome stesso indica di cosa sono fatte le stigghiole, dato che deriva da extilia, la parola latina per intestino. La ricerca di una stigghiola fatta come si deve è una specie di caccia al tesoro, anche se vi potete aiutare in qualche modo: fatevi consigliare da chi abita a Palermo da tanti anni, magari proprio da chi lavora nei bar e nelle rosticcerie; seguite poi il fumo.
Essendo un piatto dall’odore molto forte, non c’è altra soluzione che cucinare le stigghiole all’esterno: il fumo che si alza dalle braci – preparate con ore d’anticipo – è indice del fatto che c’è uno stigghiolaru nei dintorni, ma se è il migliore di Palermo o meno, starà a voi a scoprirlo.
Tocca infine al pani chi’ panelli, forse la ricetta più semplice e al tempo stesso più diffusa a Palermo. Il pane con le panelle è un panino al sesamo che viene farcito con delle sottili frittelle preparate con farina di ceci (le panelle). Come succede per le stigghiole e per lo sfincione, sono tantissimi i posti in cui si può trovare questo piatto. Non solo nelle friggitorie, ma anche presso i tanti venditori ambulanti. Alcuni si fanno addirittura portare il pane fresco ogni ora, come Za Teresa in via Silvio Pellico.
E poi ci sono le rivisitazioni, come quella proposta da Franco u Vastiddaru, storica friggitoria che vi aggiunge le melanzane fritte. A Palermo, comunque, l’aggiunta più diffusa è quella delle crocchè, crocchette di patate sempre fritte, tanto che panelle e crocché vanno praticamente di pari passo quando si parla di pane e panelle. Ah, il vero nome delle crocché è cazzilli: è che non la possono friggere, ma i palermitani ci tengono parecchio alla semantica.