Pasticceria Geniale: alla Scoperta dei Dolci di Napoli

Tutta l’anima partenopea

Pochi libri hanno colpito l’immaginario globale come “L’amica geniale” di Elena Ferrante. Conquistato il mercato anglosassone a fine 2015, nell’autunno 2016 la serie italiana si appresta a diventare uno dei titoli più venduti anche sul mercato tedesco, grazie alla pubblicazione dei primi due volumi.

Ed è un successo praticamente inarrestabile. Soprattutto perché le sue storie affascinano e intrappolano al tempo stesso, ma difficilmente lasciano indifferenti. I suoi libri parlano della storia di due amiche cresciute nello stesso rione napoletano verso la fine del Novecento, eppure condensano un microcosmo talmente ricco di particolari interessanti, che questa storia potenzialmente banale risucchia il lettore in un’altra dimensione.

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Chi conosce Napoli la ritrova immediatamente sulle sue pagine, chi non c’è mai stato vorrebbe andarci per provare lo stesso senso di familiarità.

Su una cosa sono tutti d’accordo: sebbene non si sappia ancora il suo vero nome, l’autrice della serie è di Napoli. La conosce bene come nessun altro, in ogni dettaglio e rituale della sua storia. Tutto nei libri della Ferrante è vivido: anche il cibo, che più che essere un piacere… rimanda ad altro.

Rione a Napoli – Fonte: Shutterstock \[…\] [Leggi tutto…](https://quisine.quandoo.it/stories/pasticceria-geniale-dolci-napoli/attachment/rione-napoli-2/)

Come molti oggetti presenti nei quattro volumi, il cibo simboleggia lo status oppure arricchisce eventi importanti. O ancora ribadisce il prestigio di una famiglia o di un personaggio. Per esempio, nel primo volume della serie si legge:

La madre di Gigliola, in occasione dell’onomastico (si chiamava Rosa, se mi ricordo bene), diede una festa con persone di ogni età. Poiché il marito era il pasticciere della pasticceria Solara, furono fatte le cose molto in grande: abbondavano le sciu, i raffiuoli a cassata, le sfogliatelle, le paste di mandorla, i liquori, le bibite per i bambini e i dischi con i balli, dai più consueti a quelli all’ultima moda. Venne gente che alle nostre festicciole di ragazzi non sarebbe mai venuta.”

Elena Ferrante, L’amica geniale

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Le descrizioni del cibo invogliano il lettore ad un approfondimento; se è vero che nessuno conosce Napoli senza aver prima esplorato la sua cucina, occorre però superare pizza e pastiera. Il ricettario partenopeo è ricco di piatti spesso sottovalutati, che vengono oscurati dalle due famose portate.

E allora l’enfasi dell’autrice sulla pasticceria è un ottimo spunto per esplorare uno dei punti forti della città: i suoi squisiti dolci. Anche perché, proprio come i personaggi dei romanzi della Ferrante, anche i piatti di Napoli hanno tanto da raccontare.

Creativa e ricca di storie: lo specchio della città

La pasticceria napoletana affonda le sue radici nella tradizione francese, con cui condivide molti metodi di preparazione e la scelta degli ingredienti, a partire dall’uso del burro per finire con le creme utilizzate nelle farciture.

Influsso francese ma non solo: in molti pensano che il babà, uno dei suoi dolci più famosi, abbia addirittura origini polacche, senza contare il contributo dei Borboni che – come spesso accade nel Sud Italia – hanno lasciato un’impronta difficile da ignorare sulla cultura locale (e quindi sulla sua cucina).

La proposta però è varia, e chi non conosce bene Napoli rischia di perdersi in un labirinto di odori tra i quali è difficile destreggiarsi. Proprio per questo motivo, abbiamo chiesto ad alcuni napoletani DOC di indicarci i pasticcini più rappresentativi e saporiti della loro città, suggerendoci in alcuni casi i migliori forni di Napoli e dintorni.

Spionaggio e monasteri: i segreti della sfogliatella

Non si può parlare di pasticceria napoletana senza menzionare la sfogliatella: tutti la amano, ma come spesso accade ci sono due fazioni tra i suoi amanti, quelli che prediligono la riccia e quelli che preferiscono la frolla. Questo dolce viene riempito con una crema di ricotta e uova, a base di essenza limone e cannella; la sua versione riccia ha un involucro di pasta sfoglia ripiegato a forma di conchiglia, mentre l’altra impiega pasta frolla ed ha una forma più sferica.

E, come ogni storia ambientata a Napoli, la sua origine è avvolta da un alone di mistero e contraddizioni che ha origine quattro secoli fa.

Ma andiamo con ordine. Qualche secolo fa i dolci venivano impiegati anche come mezzo per ingraziarsi i livelli più alti dell’aristocrazia locale o dei potenti in generale, e per assicurarsi prestigio e favori molti monasteri inventavano torte alle quali era impossibile resistere.

Sfogliatella riccia – Fonte: Schutterstock \[…\] [Leggi tutto…](https://quisine.quandoo.it/stories/pasticceria-geniale-dolci-napoli/attachment/shutterstock_362005298/)

Per garantirsi un vantaggio sugli altri forni della città, le ricette erano presto tenute segretissime, nascoste perfino all’interno dello stesso ordine ecclesiastico. Si dice che la ricetta originale del precursore della sfogliatella fosse stata trafugata dal monastero di Croce di Lucca, per cadere poi nelle mani di altri chiostri della zona, ma mai al di fuori degli edifici religiosi.

E qui subentra la storia del conservatorio di Santa Rosa da Lima, sulla costiera amalfitana. Un giorno una suora utilizzò degli avanzi di pasta di semola ed altri ingredienti per creare un dolce originale, che riprendesse la vecchia ricetta di Croce di Lucca aggiungendo però limoncello, la pregiata ricotta di Agera, frutta secca e zucchero.

Il cappuccio di pasta sfoglia che ne nacque venne chiamato Santarosa e divenne uno dei dolci più popolari della zona; la sua copertura di amarene era il fiore all’occhiello di un pasticcino che divenne presto simbolo di prestigio tra i ceti più alti. Per ovvi motivi, la ricetta fu tenuta a lungo segretissima.

La sfogliatella frolla sostituisce la pasta sfoglia tradizionale con della pasta frolla più soffice. – Fonte: Schutterstock \[…\]

Ed è qui che le cose si fanno ancora più interessanti. Secondo la leggenda, un giovane pasticcere e oste napoletano – Pasquale Pintauro – aveva intrattenuto dei rapporti con una novizia del convento, fino a diventarne un amico “molto intimo”. Nel 1818 riuscì grazie a questa speciale intimità ad impossessarsi della ricetta.Si sbarazzò dello strato di amarene conferendo al dolce la forma triangolare e riccia della sfogliatella moderna, poi decise di diffonderlo anche tra gli strati più bassi della popolazione con non poco successo. Era nato uno dei classici della pasticceria napoletana, a cui presto si aggiunse una variante tonda, simile a una pagnotta e chiamata “sfogliatella frolla“.

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Dove mangiarla, se vi trovate a Napoli? Inutile dire che dopo aver diffuso il dolce la pasticceria di Pintauro ha avuto un successo inarrestabile, talmente inarrestabile che è sopravvissuta a due guerre mondiali ed è aperta ai giorni nostri. La pasticceria si trova in via Toledo, negli affascinanti quartieri spagnoli, ed è un must per chi vuole assaggiare la vera sfogliatella.

In alternativa, nei pressi di piazza Garibaldi, si trova l’antico forno gestito dai Fratelli Attanasio: grazie al sapere tramandato dai loro nonni – che hanno preparato sfogliatelle calde fin dal 1930 – la loro pasticceria è una delle più apprezzate di Napoli.

Il nobile babà

Un dolce che chi visita questa città non può non assaggiare è il babà. Forse una delle parole napoletane più famose nel mondo, sorprendentemente è legata alla Polonia e a Stanislao Leszczyński, suocero di Luigi XV – il penultimo re di Francia prima della Rivoluzione. Anche in questo caso, le storie dietro alla nascita di questo dolce sono intricate e con interessanti retroscena.

Questo dolce soffice imbevuto di rum non è originario dei monasteri della costiera amalfitana, ma arriva da lontano: si tratta infatti di una versione modificata del babka ponczowa, un dolce polacco a lievitazione naturale, dall’impasto spugnoso simile alle brioches. Secondo la leggenda, una variante di questo dolce tradizionale – cioè il kugelhupf, a forma di ciambella – era molto popolare nell’Europa centrale. Con un’unica eccezione: il re Stanislao.

Su questa repulsione ci sono due ipotesi: una è che il re polacco fosse talmente appassionato di pasticceria da essersi stufato dei dolci tradizionali, l’altra è che avesse perso tutti i denti e che il babka gli risultasse troppo stopposo e difficile da masticare.

I babà napoletani – Fonte: Shutterstock \[…\] [Leggi tutto…](https://quisine.quandoo.it/stories/pasticceria-geniale-dolci-napoli/attachment/shutterstock_499352008/)

Fatto sta che la sua avversione lo portò a inzuppare la torta con una bottiglia di rum: si dice addirittura che all’ennesimo kugelhupf abbia scagliato il piatto contro una vetrina piena di alcolici rovesciando una bottiglia di rum aperta e ammorbidendo il suo dessert.

Il babà era nato, fu presto diffuso nella Francia borbonica assumendo la classica forma a fungo, fino a giungere a Napoli nei primi anni del diciannovesimo secolo, con ulteriori trasformazioni.

E oggi? I napoletani non hanno dubbi: bisogna andare da Scaturchio. Questa pasticceria ha aperto nel 1905, ed è diventata famosa innanzitutto per il suo babà, proposto sia nella versione classica con rum bianco, che in quella Severin (con crema pasticcera e frutta). Un’altra specialità della casa sono le delizie al limone, una cupola di pan di spagna ricoperta di crema al limoncello.

Il più giovane di tutti: il fiocco di neve

Napoli però continua a essere creativa anche ai giorni nostri, e non c’è bisogno di viaggiare di secoli o di scoprire intricate relazioni di potere per creare nuovi pasticcini. Proprio per questo chi è di Napoli indica senza tentennare il dolce del momento: il fiocco di neve della Pasticceria Poppella, una creazione recentissima, che tutti sembrano adorare.

Nessuno conosce la vera ricetta dei fiocchi di neve di Poppella – Fonte: Shutterstock. \[…\]

I fiocchi di neve consistono in una pasta brioche a forma di pagnotta, con un ripieno di crema al latte con ricotta e panna, più un ingrediente segreto che nessuno è ancora riuscito a decifrare; alla fine della preparazione, questi dolci sono ricoperti con zucchero a velo, che le conferiscono il nome e la sua caratteristica estetica principale.

La ricetta nasce da un’idea dell’attuale proprietario Ciro Poppella di creare qualcosa di nuovo nel panorama della pasticceria locale, e così nel 2015 dopo diverse sperimentazioni ha proposto alla sua clientela un dolce nuovo che non ha fatto altro che riscuotere consensi.

Ma non è che il suo chef sia un parvenue: dietro questa pasticceria del quartiere Sanità c’è una storia che attraversa tutto il ventesimo secolo, visto che è stata aperta nel 1920 e perfino Totò, il principe della risata, sarà sicuramente passato dal laboratorio dolciario negli anni trascorsi nella vicina via Santa Maria Antesecula.

Fritture speciali

Leggendo i libri di Elena Ferrante sembra che le occasioni speciali e molto informali richiedano un tipo particolare di dolci: i dolci fritti, di cui i bambini napoletani sembrano andare particolarmente ghiotti, soprattutto durante le feste in famiglia. Lenù, la voce narrante, ci dice ad esempio che:

“Nino si accomodò accanto a me per guidarmi in un posto in cui si mangiava bene e – disse rivolgendosi a Dede ed Elsa – facevano frittelle buonissime. Le descrisse minutamente suscitando l’entusiasmo delle bambine. [] Quando arrivarono le frittelle, le bambine esultarono, Pietro pure, se le contesero.”

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I dolci fritti di Napoli seguono due linee principali: o sono ricchi di ingredienti e decorazioni, oppure scelgono la linea della semplicità (si parla spesso di cucina povera napoletana).

Nel primo caso si consuma qualcosa di simile agli struffoli, un dolce tipico natalizio che consiste in piccolissime frittelle sferiche del diametro di poco meno di un centimetro; dall’impasto – che contiene farina, uova, strutto, zucchero, un pizzico di sale e del liquore all’anice – si formano tante palline che poi vengono fritte e avvolte nel miele caldo, prima di essere decorate con canditi e confetti.

Non è un Natale come si deve senza degli struffoli a tavola – Fonte: Shutterstock. \[…\]

Dopo la sfogliatella gli struffoli sono probabilmente uno dei dolci più napoletani che ci siano, e non potrebbe essere altrimenti: si dice addirittura che risalgano alla Magna Grecia, visto che una possibile origine del nome sia il greco “strongoulos” (arrotondato), tanto che nella cucina greca odierna è sopravvissuta una ricetta simile con il nome di loukoumades, che degli struffoli hanno molte caratteristiche.

C’è chi parla di origini andaluse o arabe, ma comunque una cosa è certa: si tratta di un piatto casalingo che non può mancare a Natale.

Il secondo tipo di dolce fritto sono le zeppole. La loro origine è povera, visto che questo tipo di pasticcino viene solitamente preparato utilizzando pochissimi ingredienti, di solito acqua, lievito, farina, sale: sono le zeppole di pasta cresciuta, uno dei capisaldi della cucina povera partenopea.

Molto probabilmente, le frittelle a cui fa riferimento Elena Ferrante nei suoi romanzi sono proprio queste, e non è detto che in mani sapienti questa ricetta sappia trasformarsi in una squisitezza. Ma ovviamente l’inventiva napoletana ha saputo trasformare questo piatto semplice in qualcosa di nuovo e ricco: le zeppole di San Giuseppe.

Per la festa del papà le zeppole di San Giuseppe sono il pasticcino ideale – Fonte: Shutterstock. \[…\]

Di certo la zeppola di San Giuseppe (consumata soprattutto per il 19 marzo) della ricetta povera originale ha solo la base, e viene riempita con abbondante crema pasticcera. La superficie è poi spolverata con dello zucchero a velo e decorata con un’amarena sciroppata.

Per chi vuole mangiare una zeppola di San Giuseppe come si deve, ci sono molti posti a Napoli per provare questo dolce, anche se molti estimatori indicano due punti di riferimento: la Pasticceria Ranaldi dei Quartieri Spagnoli oppure il famoso caffè Gambrinus in stile Belle époque di via Chiaia.

Mastri cioccolatieri

Un viaggio nella pasticceria partenopea non può che terminare con piccole gemme per gli amanti del cioccolato. Oltre ad un ricettario vasto che vede nella torta caprese (a base di cacao e mandorle) uno degli esempi più saporiti, Napoli è ricca di artigiani capaci di forgiare praline ed altre delizie tascabili degne di nota. Uno dei luoghi must della città se si va matti per il cioccolato è sicuramente Gay-Odin, che ama definirsi una “Fabbrica del cioccolato” e forse non c’è denominazione più azzeccata.

Napoli non è estranea al cioccolato, anzi, e Gay-Odin è il luogo migliore per scoprire come – Fonte: Shutterstock. \[…\]

Questa cioccolateria ha una storia secolare, una storia di emigrazione: non da Napoli, ma verso Napoli. Siamo ad inizio secolo. L’allora ventitreenne Isidoro Odin lascia Alba – in provincia di Torino e oggi sede della Ferrero – per portare tutta l’expertise piemontese della lavorazione del cacao in una delle metropoli creative più importanti d’Europa, vivace e moderna al pari di Vienna e Parigi.

Il quartiere Chiaia seduce ben presto il cioccolatiere, che inizia ad insediarsi creando una delle esperienze della gastronomia partenopea più apprezzate. Il primo locale viene decorato in maniera impeccabile ed è un tripudio di eleganza, a cui seguono altri punti vendita, molti dei quali sono considerati locali di interesse storico proprio per il loro arredamento di inizio secolo.

Nei punti vendita di via Chiaia o di via Vetriera potrete sperimentare questo fascino unico, ma soprattutto provare un cioccolato davvero di qualità: Gay-Odin segue tutte le fasi della lavorazione artigianale, dalla tostatura al confezionamento. I suoi cioccolatini sono un ottimo completamento per una città che nasconde storie affascinanti in ogni cellula del suo corpo.

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