L’Oro Nero della Calabria: la Liquirizia
Un tesoro che conquistò perfino Napoleone
C’è chi la chiama liquerizia o liquorizia, con un’affettazione ormai passata di moda, qualcuno usa addirittura regolizia; oppure liquirizia, e quest’ultimo termine mette d’accordo tutti. Ma neanche la lingua inglese è unanime: si dice licorice negli Stati Uniti e in Canada, liquorice nel Regno Unito. Gli spagnoli usano regaliz oppure orozuz. I tedeschi usano due parole diverse: Laktriz/Laktritze oppure Süßholz (cioè legno dolce). E se il linguaggio è specchio della realtà, allora non sorprende che questa radice e il suo sapore siano così divisivi.
Il gusto inusuale di questa radice è la fonte principale di dibattiti interminabili: c’è chi la trova amara – anche se il succo da cui viene estratto è trenta volte più dolce dello zucchero (alcuni dicono quaranta, altri cinquanta – come spesso accade ognuno ha la sua versione); altri invece amano quel suo gusto così difficile da descrivere, fresco e intenso come pochi. Napoleone, per esempio, adorava talmente tanto mangiare liquirizia che ogni mattina, dopo essersi lavato, rasato e vestito, riceveva “il suo fazzoletto, la sua tabacchiera e una scatolina piena di liquirizia aromatizzata all’anice”. E i denti ingialliti dell’Imperatore – scriveva l’amica di Napoleone durante l’esilio a Sant’Elena, Betsy – erano dovuti proprio al consumo esagerato di liquirizia.
E attorno a questo prodotto girano tantissime leggende. Al di là dei cattivi effetti estetici non passa settimana senza leggere articoli sulle proprietà benefiche della liquirizia: sarebbe perfetta per alzare la pressione o per curare ulcere ed herpes, secondo alcuni, ed è ideale contro l’asma e la cattiva igiene orale. Anche qui, insomma, ognuno dice la sua. Presa in dosi massicce può portare però a spiacevoli inconvenienti: l’attore Mack Swain, durante le riprese del film di Charlie Chaplin “La corsa all’oro”, si sentì male nel girare la scena in cui Charlot e il suo amico cucinano i loro stessi stivali; gli stivali erano fatti di liquirizia e Swain fu ricoverato a causa del loro effetto lassativo.
Un rimedio antico
Come in ogni cosa basta un po’ di moderazione, e la liquirizia si rivela un ingrediente molto versatile. Tanto che è utilizzata nei contesti più svariati: le compagnie di tabacco la utilizzano sia per il suo sapore sia perché rende la nicotina più facile da inalare. E allo stesso tempo è credenza diffusa che l’assunzione della liquirizia aiuti a smettere di fumare. Anche qui, due opinioni opposte.
La cosa che forse rende la liquirizia un prodotto così bizzarro è la sua estrema ecletticità – cosa quasi assurda se pensiamo al suo gusto così distintivo. Nel corso dei secoli le varie popolazioni che hanno coltivato questa pianta – dalla Spagna fino alla Cina – hanno trovato modi originali per utilizzarla, e già i medici greci ne lodavano le proprietà di contrasto del mal di fegato. Anche Palestro de’ Crescenzi, che nel quattordicesimo secolo compilò un trattato dedicato all’agricoltura, elencava le qualità della liquirizia mettendo al primo posto quella dissetante (ed è per questo motivo che viene usata prevalentemente dalle industrie di tabacco come agente idratante). E in effetti le proprietà curative di questa pianta hanno fatto sì che la liquirizia, fino a meno di cent’anni fa, si trovasse solo in farmacia.
L’eccellenza calabrese e il successo di Amarelli
In Italia la liquirizia è associata soprattutto alla Calabria perché è in questa regione che la pianta trova le migliori condizioni per crescere. Sul litorale ionico – Cosenza, Rossano, Corigliano – si produce circa l’80% della produzione nazionale. L’Enciclopedia Britannica all’inizio del ‘900 considerava quella calabrese come la migliore a disposizione sul mercato, e oggi questo prodotto è una delle tante eccellenze d’Italia. Il merito del fortissimo legame tra questo oro nero e la Calabria è da attribuire al Duca di Corigliano, che nel 1715 decise di far diventare la liquirizia una risorsa economica della regione da esportare in tutto il mondo. Cominciarono a fiorire gli stabilimenti per la lavorazione e il più celebre di tutti cominciò la sua produzione circa nel 1731, rappresentando ancora oggi il marchio per eccellenza della liquirizia: è Amarelli, l’azienda leader del settore in Italia.
Anche se gli Amarelli si occupano di lavorazione della liquirizia fin dal ‘500, fu sotto l’impulso del Duca di Corigliano che negli anni ‘30 del ‘700 si cominciò ad utilizzare come attrezzo per la lavorazione il celebre concio, i cui primi esempi furono fatti istallare in Calabria proprio dal Duca. Il concio è un fabbricato che esiste tutt’ora, e che trecento anni fa modificò líntero processo produttivo. Il suo nome ricorda la conciatura delle pelli perché il procedimento non è molto diverso: la liquirizia, infatti, deve essere acconciata, cioè trasformata. La lavorazione si rendeva necessaria anche per un altro motivo: la liquirizia è una pianta infestante, che tende a crescere spontaneamente e a diffondersi con rapidità. La borghesia calabrese intuì di poter velocizzare la disinfestazione proprio grazie al concio, che consentiva di estirpare e lavorare maggiori quantità della pianta, nonché di aumentare le esportazioni – e quindi i profitti.
Una storia da raccontare
Fin dall’inizio l’Amarelli ha puntato sulla qualità, rivolgendosi ad una fascia di clienti più esigente. Oggi il marchio è uno dei nomi migliori del Made in Italy grazie ad un lavoro significativo di immagine, che fin dalle antiche stampe ancora mantenute sulle scatoline di latta rimarca l’orgoglio per il suo passato. Un passato che è possibile ripercorrere grazie al Museo della Liquirizia, aperto nel 2001 proprio nell’antico stabilimento produttivo dell’azienda. La famiglia Amarelli ha voluto raccontare un’avventura, quella di un distretto industriale che in poco tempo riuscì a diventare una parte importantissima del sistema dolciario d’Europa. La storia degli Amarelli è anche quella di tutte le famiglie che hanno contribuito alla diffusione della liquirizia, trasformandola in uno dei prodotti più rappresentativi della Calabria.
Una storia che ha tanto da dire. Nel museo si possono esplorare aspetti diversi del successo di questa azienda: innanzitutto l’agricoltura e la coltivazione; poi le celebri scatolette in metallo, uno dei tratti distintivi delle liquirizie Amarelli e la corrispondenza tra titolari di aziende di liquirizia sparsi per l’Europa; infine c’è una galleria su come l’avvento dell’elettricità ha modificato l’intera produzione. Sono solo due i marchi che possono vantare più dei 40.000 visitatori annuali del Museo della Liquirizia Amarelli: Perugina e Ferrari, due tra i nomi di rilievo del Made in Italy.
Per questo abbiamo intervistato Fortunato Amarelli, amministratore delegato dell’azienda calabrese, per scoprire qualcosa di più sulle sue apprezzate scatolette.
Qual è il prodotto di maggiore successo della vostra azienda, ad eccezione della liquirizia pura?Sicuramente Sassolini, quasi indistinguibili da quelli che si trovano sulle spiagge di Rossano: sono stati una grande invenzione degli anni ‘60 e continuano ad avere un grandissimo successo. L’anima è di liquirizia gommosa ed il rivestimento di zucchero. Questo ci fa capire che le ricette tradizionali sono ancora molto ricercate, e questo è un vero esempio di artigianalità applicata al pastigliaggio a cui il pubblico non è più abituato, soprattutto considerati i tantissimi prodotti che si trovano nel settore dolciario.
Amarelli ha lanciato lo scorso anno un contest per le sue caratteristiche scatoline di metallo, “Dress the Black”. Quali sono gli obiettivi di questo contest?Avevamo bisogno di nuove contaminazioni, allora abbiamo dato un brief molto generale, anche perché volevamo capire come i giovani designer vedevano Amarelli, quale interpretazione avrebbero dato a un brand così antico. È stato un po’ come mettersi in ascolto e cercare di capire come sta cambiando il mondo, quali sono i nuovi gusti. Ma è stato anche un modo per conoscere tanti giovani designer e dare loro un modo di venire alla ribalta.
Quale piatto a base di liquirizia preparerebbe, se volesse sorprendere qualcuno?Un piatto semplice ma di sicuro effetto è il branzino con sale alla liquirizia, perché è un’interessante esperienza sensoriale; l’ingrediente è impercettibile al primo assaggio, ma si fa via via più persistente una volta smaltito il sapore del sale.
Qual è l’abbinamento più strano di cui ha sentito parlare?La liquirizia è considerata un correttore di sapori, quindi se ben dosata sta bene un po’ ovunque. Negli ultimi anni abbiamo sollecitato la produzione di ricette a base di liquirizia e un foltissimo gruppo di foodblogger lavora in stretta collaborazione con noi. Abbiamo un database sconfinato di ricette: però è davvero difficile rimanere sorpresi oggigiorno, destano qualche temporaneo sospetto le birre e in ambiti non alimentari il dentifricio, ma anche questo timore dura giusto il tempo del primo assaggio.
Qual è il principale mercato straniero della vostra azienda?L’azienda vende ormai in ventuno paesi ma sicuramente l’Europa resta il mercato più dinamico; Germania, Inghilterra e Francia sono i principali mercati di destinazione. Il primo mercato è però la Danimarca: i popoli scandinavi sono da sempre amanti della liquirizia e la consumano in abbondanza soprattutto nella variante salata, ma i veri amatori preferiscono il gusto della liquirizia pura italiana.
Quando la Calabria incontra la Danimarca
Anche fuori dall’Italia, ovviamente, c’è chi ha intuito il potenziale di questo prodotto. Un giovane danese di 23 anni, Johan Bülow, fondò Lakrids – il nome danese della liquirizia -, un’azienda che ha l’obiettivo di esplorare tutti i sentieri gastronomici possibili. Essendone lui stesso un consumatore ghiotto, Bülow era convinto che questo prodotto potesse essere utilizzato in ambiti di ogni tipo, non solo in quelli dolciari. Anche se i primi esperimenti andarono male, lentamente Bülow e la sorella cominciarono a capire che delle nuove ricette erano possibili; oggi si può dire che Lakrids è una specie di impero della liquirizia, costruito dal nulla fino diventare una delle aziende europee più originali e conosciute del settore. È quasi inutile dirlo, però buona parte della liquirizia utilizzata dall’azienda danese proviene proprio dalla Calabria.